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Come cantano gli altri popoli? Come utilizzano la voce? E il corpo? Demetrio Stratos con Alain Danièlu, propulsori dell’immagine extraeuropea dalla prima metà del ‘900

[(c) 2021 Alan Bedin, insegnante di canto moderno contemporaneo, armonico. Coordinamento Hanuman. La Scuola di Musica e Danza Indiana]

Lo studio della Voce spesso mi porta a riconoscere punti di congiunzione tra i diversi percorsi che hanno delineato la mia crescita – o meglio scusate – la mia consapevolezza. Spesso per riconoscere il linguaggio di un artista ho dovuto, non solo studiare la sua configurazione, ma anche i luminari che prima di lui potrebbero in qualche modo averlo influenzato o caratterizzato la sua personalità, visione e concezione di canto o suono con la voce. È palese e ormai risaputo l’amore che provo per la band Area International POPular Group e per alcuni dei suoi elementi. Si sa… il primo strumento di noi cantanti e musicisti è l’orecchio e sicuramente l’ascolto lungimirante di certi artisti ha sicuramene condizionato il loro sound e la miscela voce-musica, come per gli Area dal loro primo Lp del 1973. Si tratta sicuramente di Pharoah Sanders ‘Karma’ eseguito già anni prima nel 1969 dove indiscutibilmente si intercetta la sonorità del primo sax di Victor Edouard Busnello, le idee e l’aleatorietà di “Event ’76”, i suoni legnosi dei fratelli baschi con lo txalaparta su “Maledetti”, addirittura lo jodel di Demetrio Stratos, che poi sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica.

Il grande Demetrio Stratos (cantante, musicista, performer) al di fuori del gruppo Area ha portato avanti uno studio decisamente rivoluzionario caratterizzato da una trasgressione consapevole che per usare le parole di Colonetti, costruisce la grande regola delle espressioni artistiche del Novecento. Stratos è stato tra i primi a capire che se un cantante vuole in qualche modo considerarsi moderno, contemporaneo e creativo,fondamentalmente deve – dopo essersi confrontato con un foniatra e un psicologo – effettuare un processo di riduzione, semplificazione dalle forme commerciali a quelle colte, fino a raggiungere l’elementare purezza propria della musica etnica. Come ho potuto constatare da interviste e chiacchierate post concerto con il collega M° Mauro Pagani, Demetrio oltre ad una tournée a Cuba – dove aveva avuto modo di incontrarsi con delegazioni di musicisti mongoli, africani, pakistani e haitiani, aveva intrapreso lo studio di tecniche medio orientali portate in Europa (Centre d’Etudes de Musique Orientale o il dipartimento di musicologia presso il Musée de l’Homme di Parigi) – in Italia aveva conosciuto la tradizione musicale del nord India con le pubblicazioni del grande mentore e diffusore culturale Alain Danièlu, indianista, musicista, filosofo, sanscritista francese.

Alain Danièlu (Neuilly-sur-Seine, 4 ottobre 1907 – Lonay, 27 gennaio 1994)

In un libro dell’amico Antonio Oleari ‘Demetrio Stratos. Gioia e rivoluzione di una voce’ dove con il catalogo Cramps Rercords di Cramps Music srl ho collaborato attivamente, si presentano degli appunti interessantissimi scritti dopo delle lezioni che Demetrio aveva tenuto presso il Conservatorio di Milano dove teneva un corso di semiologia della musica contemporanea sulla voce.

Demetrio Stratos Demetrio Stratos, pseudonimo di Efstràtios Dimitrìu (Alessandria d’Egitto, 22 aprile 1945 – New York, 13 giugno 1979) Cantante, polistrumentista e musicologo greco naturalizzato italiano

“E’ necessario premettere che la voce in India come in altre regioni è strettamente legata alla religione. A tal punto che esistono sacerdoti che hanno come compito specifico quello di addestrarsi all’uso della voce per parlare con dio. Nella musica indiana la voce uno strumento autonomo. Cioè essa non serve solo a raccontare storie, ma in molti casi la parola viene annullata e la voce diventa uno strumento di comunicazione musicale (musica vocale). Le tecniche di “pranà” sono certamente la radice di tutto questo. Esse spiegano che la voce parte dal diaframma, sale, va al cuore, alla gola, e alla fine, alla testa dalla quale esce. Questo spiega l’adozione della respirazione diaframmale come respirazione normale. Con questa tecnica gli indiani sono in grado di emettere note non solo più lunghe e più nette, ma sulla distanza queste rimangono invariate e non vibrano. Gli indiani dispongono di tre timbri: alto, medio, basso. Al contrario di noi i timbri alti rappresentano tristezza, mentre i bassi allegria. L’unità microtonica si chiama ‘shruti’. La musica indiana dispone di seicento scale e tutto è costruito sull’improvisazione”.

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