“Il Signore del Drone[1]. Pandit Pran Nath e lʼunderground americano”. [A cura di Angelo Sorato] Liberamente tradotto da Alexander Keefe, Lord of the Drone. Pandit Pran Nath and the American underground originariamente pubblicato in «Bazaar. Of boom and bust» 20, Spring 2010.[2]
Prima venne il drone, con i fantascientifici tanpura[3],traboccanti, fluttuanti e oscillanti, a volume troppo alto per i burocrati e i professori della All India Radio. Simili a una palude in una notte di mezza estate con un milione di grilli che cantano, o al vento ululante che agita le linee elettriche fuori da una baita nellʼIdaho, o al ruggito sommesso del torrente di fronte alla grotta di un eremita sopra Dehradun: vedere il dio dalla gola blu[4] che giace lì, sdraiato e immobile, con gli occhi chiusi, il pericoloso corpo del Signore Supremo in attesa dei piedi danzanti della sua sanguinosa consorte, pazza dʼamore[5].

Questo era il suono che La Monte Young percepì la prima volta in cui sentì della musica indiana a Los Angeles, musica tratta dallʼLP Morning and Evening Ragas di Ali Akbar Khan, del 1955, trasmessa alla radio in un spot dellʼetichetta Music City Records. Young comprò quel disco, lo portò nella casa di sua nonna, si chiuse nella sua stanza e inizio ad ascoltare la presentazione dei singoli musicisti e dei loro strumenti fatta dal violinista Yehudi Menuhin: Ali Akbar Khan al sarod[6], Chatur Lal al tabla[7], e Shirish Gor al tanpura. Nella registrazione, il suono che segue a questʼultima presentazione dura solo pochi secondi, ma ebbe un fortissimo impatto sul giovane compositore che individuò in esso il possibile supporto per una musica costruita su lunghi suoni estesi e su di un impulso ritmico idealizzato e rallentato.
Ustād Ali Akbar Khan, Pandit Chatur Lal, India, Morning And Evening Ragas (1956)
Se la musica minimalista per come la conosciamo è stata in un certo senso unʼemanazione di quel primo tanpura sentito alla radio, possiamo affermare che fu un altro il tanpura che ne generò i differenti epigoni. Il tanpura del Pandit Pran Nath era più forte e più duro; la sua tonalità e lʼeffetto sinestetico delle sue vibrazioni colpiva in profondità, fisicamente. Era come percepire il mondo in bilico sullʼorlo di un qualche radicale cambiamento, il nudo macrocosmo, il minimo massimo, e la musica proveniente da altre sfere. Non avete mai sentito raccontare questa storia perché Pran Nath si considerò uno studente per tutta la sua vita, devoto a questi incredibili strumenti dal suono soprannaturale, alle cui casse di risonanza (ottenute da zucche svuotate e fatte seccare), aggiungeva il suo speciale tocco, accordandoli per ore e ore fino a renderne la voce simile alla luce di mezzanotte, uno sfondo fuligginoso e color magenta per Malkauns, un rāga[8] che occupo sempre un posto speciale nel suo repertorio.
Non è però solo la qualità del tanpura che contraddistingue lʼesecuzione di Malkauns del Pandit Pran Nath, registrata alla mezzanotte del 21 agosto 1976, in uno studio di Soho. Ciò che davvero spicca in questa incisione, considerata dal suo allievo Henry Flynt una delle due o tre più importanti mai realizzate, è la sua voce, pietrosa e austera, e con una sotterranea intensità. Quando Pran Nath canta la tonica, che nella musica indiana si chiama shadaja, per poi scivolare lentamente, microtono per microtono, verso il basso, possiamo percepire fisicamente, dentro al petto, unʼincredibile emozione, compresa tra il timore reverenziale, il desiderio erotico e lʼannientamento. Alcuni rāga sono come delle fanciulle dai piedi leggeri che ballano durante la primavera, che giocano sulle altalene nei boschetti fioriti lungo la riva del fiume Yamuna; il Pandit Pran Nath è come la terra della cremazione, come il colore nero e blu del fumo che sale dolcemente dal tronco ardente del fuoco dei sādhu[9], o come quello della luna sul fianco della montagna.
Un musicologo vi direbbe che un rāga è uno specifico modo, una serie di note che servono come base per lʼimprovvisazione, ma il Pandit Pran Nath e i suoi studenti vi direbbero qualcosʼaltro, ossia che il rāga è unʼanima vivente che il musicista invoca come una presenza divina, che si muove dietro e tra le note, un maestro cosmico che lʼesecutore, se ha successo, incarna e trasmette, dissolvendo i confini tra cantante, ascoltatore e canto. Ogni rāga è associato a una certa ora del giorno, anche se molti artisti ignorano questo aspetto durante lʼesecuzione, considerandolo una convenzione che non serve per forza rispettare; il Pandit Pran Nath cantava i rāga di mezzanotte a mezzanotte. Uno di questi è proprio Malkauns, un ipnotico rāga notturno pentatonico, che alcuni musicisti superstiziosi si rifiutano di eseguire perché si dice attragga i demoni; agisce come un potente narcotico, cambiando totalmente la nostra percezione del tempo. Non provate a guidare sotto la sua influenza. Mettete questa registrazione del 1976 e stendetevi su qualcosa di morbido: le quattro semplici sillabe cantate da Pran Nath ʻgo vin da ramʼ sono il nome di Dio.
Pandit Pran Nath, 21 VIII 76 NYC Raga Malkauns (1976)
Mi sono imbattuto per la prima volta nel Pandit Pran Nath dopo aver ascoltato una registrazione di La Monte Young e di sua moglie, lʼartista Marian Zazeela. Il disco, spesso indicato come ʻthe black recordʼ a causa dello scuro design caleidoscopico della copertina realizzata dalla Zazeela, fu pubblicato nel 1969 in unʼedizione limitata di duemila copie, dallʼimpresario artistico di Monaco Heiner Friedrich, per lʼetichetta Edition X. LʼLP divenne rapidamente un documento fondante dellʼunderground dʼavanguardia, un punto di riferimento sacro per la musica noise, di culto nella psichedelia post-minimalista e nella sound art. Il lato B comprende 23 VIII 64 2:50:45 – 3:11 AM The Volga Delta From Studies In The Bowed Disc, un brano noise esteso e fortemente astratto, realizzato da Young e Zazeela utilizzando un gong datogli dallo scultore Robert Morris. Ma quello che attirò il mio orecchio fu 31 VII 69 10:26 – 10:49 PM Munich From Map Of 49’s Dream The Two Systems Of Eleven Sets Of Galactic Intervals Ornamental Lightyears Tracery, la traccia che occupa tutto il lato A. Il brano, registrato nella galleria di Friedrich a Monaco di Baviera, nel 1969, entra subito nel vivo con due voci (Young e Zazeela), che si lamentano e si spingono lʼuna contro lʼaltra, scivolando su di un bordone sinusoidale generato elettronicamente. La traccia mi ricordò subito la musica classica del Nord India: lʼaccompagnamento vocale della Zazeela, leggermente oscillante assieme alla forma sinusoidale elettronica, così come le sottili e fluide linee modali di Young. Il suono era così misterioso e mutevole (specialmente allʼestremità inferiore della sua estensione la voce di Young suona come aliena), tuttavia in qualche modo straziante e umano, con respiri, leggere imperfezioni, e pieno di uno sforzo udibile. Iniziai a sentirmi stordito e sopraffatto, colpito e pieno di inquietanti visioni ed effetti fisici. La musica era così seria, così oscura e intensamente concreta, così assolutamente elevata, senza riferimenti o ammiccamenti, senza appigli; o ne ridevi e smettevi di ascoltarla, oppure ne rimanevi cambiato.
La Monte Young/Marian Zazeela, 31 VII 69 10:26 – 10:49 PM Munich From Map Of 49’s Dream The Two Systems Of Eleven Sets Of Galactic Intervals Ornamental Lightyears Tracery (1969)
Non che non abbia pensato che ciò che avevo sentito potesse essere il prodotto di un grossolano atto di imitazione, ma mi sembrava essere così strano, così disinteressato a piacere a me o a chiunque altro. Se si trattava di un imitazione, la motivazione della sua esistenza rimaneva misteriosa. Ho saputo in seguito della relazione di La Monte Young con Pran Nath.
Pandit Pran Nath arrivò a New York nel 1970, dopo aver lottato per sopravvivere a Delhi come insegnante di canto, affermandosi presto come una figura chiave nella scena musicale underground della città. Se lʼinfluenza di Ravi Shankar si espresse attraverso facili e diluiti assoli di sitar[10], nel ‘bubblegum neo-Orientalist psych-pop’,amato da milioni di persone, Pran Nath prese la strada opposta, puntando ai piccoli circoli di intenditori dʼélite che snobbavano il rock, e ai sadhu bianchi drogati di tanpura. Questo incontro fu allʼorigine di sconvolgenti episodi metafisici, edʼesperienze elettro-sciamaniche di rapimento estetico. Pran Nath era lì, come un campo di forza, fin dallʼinizio di alcune delle istituzioni più venerate nel mondo dellʼarte contemporanea, tra cui la Dia Art Foundation e The Kitchen, con un elenco di studenti e devoti che comprendeva il gotha della corrente sperimentale americana, inclusi i progenitori di drone-rock, post-minimalismo, No wave, world music e ambient. Reinventò il concetto indiano di gurukul[11], secolare istituzione formativa, adattandolo alla nuova era, affermando il suo ruolo di cantante indiano nella regione più estrema dellʼavanguardia americana. Proprio per questo scomparve dalla storia contemporanea dellʼarte e della musica indiana. In effetti viene a malapena ricordato anche nei resoconti occidentali contemporanei sullo sviluppo della musica e della sound art degli anni ʻ70 e ʻ80. Ogni narrazione si basa sullʼesclusione, ma Pran Nath sembra aver trovato il modo per essere escluso da ogni racconto. Separare i fatti reali dalla leggenda nella sua biografia, è difficile quanto distinguere lʼinsegnante dallo studente che racconta la storia. Nato a Lahore nel 1918 da una ricca famiglia indù, si dice sia scappato da casa allʼetà di tredici anni per vivere con un cantante di nome Abdul Wahid Khan, prima come suo servo, poi come suo studente. Khan era un solitario Ustād[12], maestro, sufi, appartenente a uno dei gharānā[13] del Nord India, diffuse istituzioni basate sulla famiglia simili alle corporazioni dei musicisti, che univano insegnamento, peculiarità stilistiche e di presentazione. Il gharānā di Abdul Wahid Khan si chiamava Kirana, dal nome di una piccola città vicino a Delhi dove un leggendario cantante santo, di nome Gopal Nayak, si era stabilito circa otto secoli prima. Secondo la tradizione, il sultano di Delhi aveva preso Nayak, il miglior musicista della sua epoca, come tributo dopo il saccheggio della città di Devgiri, assieme a elefanti carichi di preziosi gioielli e oro. Nayak quindi, fu il primo anello di una lunga catena di esecutori che hanno trasmesso il suo stile, profondamente spirituale, invariato fino ai nostri giorni.
In effetti questa insistenza sul ʻlegame viventeʼ è stata sia un prodotto del pensiero moderno quanto una considerazione oggettiva del passato musicale. I nazionalismi culturali hanno invece creato una narrativa storica revisionista che ha cercato di minimizzare lʼautorità dei gharānā, giudicandoli come rozzi e illetterati resti di quella che fu una grande e gloriosa tradizione ʻclassicaʼ (da intendersi come hindu antica). Questo progetto musicologico proto-nazionalista è stato promosso come un grande tentativo di recupero di unʼessenza perduta, e i formidabili Ustād, riservati e prevalentemente musulmani (spesso intrisi di esoterismo e di credenze religiose eterodosse), sono stati considerati come degli ostacoli al raggiungimento di questo obiettivo. I riformisti, molti dei quali istruiti dalle élite coloniali inglesi, erano facilmente scandalizzati da pratiche e istituzioni che non riuscivano a conformare alle loro nozioni sullʼevoluzione dellʼʽautenticaʼ cultura indiana, e per alcuni di loro i gharānā erano soltanto imbarazzanti e visibili ricordi dellʼincoerente medievalismo indiano. Sempre più spesso i musicisti indù si sentivano in dovere di rappresentare non solo il proprio gharānā, ma anche la presunta nazione indiana. Comprendere la politica del classicismo e del revival nella musica indiana del ventesimo secolo è essenziale per descrivere lʼimpatto di Pran Nath sullʼavanguardia americana. Per i suoi studenti di New York era lʼincarnazione stessa della voce, senza tempo e immutabile, dellʼantichità; questo era un elemento chiave del suo fascino. Ma il suo personaggio e la sua storia (presentata dai suoi discepoli e approfondita da entusiasti critici e fautori), erano in gran parte eredità delle guerre culturali indiane del primo Novecento. In un ambiente in cui musicologi e musicisti avevano posizioni opposte, poter rivendicare in esclusiva questa ʻorigineʼ, poteva essere una carta vincente.
Gli Ustād di maggior successo, appartenenti alla vecchia scuola, si sono sempre ritagliati il loro spazio anteponendo la loro autorità a livello esecutivo piuttosto che teorico, ricevendo la sprezzante etichetta di ʻanalfabetiʼ data loro dai musicologi, come un segno di autenticità. La vera musica indiana, ricordavano, veniva imparata a orecchio attraverso un processo di iniziazione, ripetizione e memorizzazione. Le vere scale indiane sfuggono alla notazione dei musicologi, così come i veri cantanti sono sempre al di là delle classificazioni dei moderni musicologi di derivazione occidentale.
Nel caso del Kirana Gharānā del Pandit Pran Nath, questa irrisolvibile resistenza all’accademismo, così come l’insistenza nel ribadire il primato dell’oralità, trovarono il loro naturale complemento in uno stile di canto che rappresentava la musica vocale indiana al suo livello più spirituale: solenne e maestoso, quasi interamente focalizzato sullʼintonazione piuttosto che sul ritmo, sulla solitaria esperienza estetica meditativa piuttosto che sull’intrattenimento, sul lento e spesso lunghissimo ālāp[14] introduttivo di un rāga piuttosto che sull’accativante virtuosismo del veloce drut[15]. Ad un certo punto, nei primi anni ‘40, Pran Nath spinse questo ordine di valori al suo limite. Prese residenza nel tempio di Tapkeshwar, dedicato a Śiva, ricavato da una grotta naturale vicino a Dehradun, vivendoci come un asceta per cinque anni. Secondo i suoi studenti spese gran parte di quel tempo cantando una singola nota, lo shadaja, accompagnato dal suono del torrente che scorreva al di la della sua cella. Alla fine degli anni ‘40 il suo vecchio maestro, vicino alla morte, lo rintracciò a Tapkeshwar e lo supplicò di abbandonare la vita ascetica, di prendere famiglia e di insegnare lo stile del Kirana Gharānā. Una nuova India indipendente stava nascendo e il subcontinente veniva diviso. Pran Nath allora, scese dalle montagne.
Questo fu però un periodo personale travagliato: il resoconto che emerge a riguardo della sua vita nella New Delhi degli anni ‘50 e ‘60 è quello di un esecutore recalcitrante e insoddisfatto, scontento dei vincoli dell’insegnamento universitario e disgustato dalle tendenze musicali che gli stavano prendendo forma attorno. I ricordi di Sheila Dhar, allʼepoca sua studentessa, ritraggono Pran Nath prima della sua reinvenzione americana: un outsider immensamente talentuoso ma eccentrico, difficile, che viveva in povertà, e totalmente non in sintonia con lo spirito del tempo. La nuova nazione aveva istituzionalizzato una certa idea di ʻmusica classica indianaʼ, propagandata dai dipartimenti di musicologia e dalla All India Radio, ma Pran Nath non poteva o non voleva adeguarvisi. Deve essere stato un sollievo per lui quando a metà degli anni ‘60 un nuovo tipo di studente iniziò ad arrivare a Delhi, alla ricerca di qualcuno con un bagaglio di conoscenze ʽaltroʼ a cui attingere, e di qualcuno da poter riverire. Questi occidentali trovarono in lui un uomo testardo, di mezza età, che parlava con autorevolezza pur se con una conoscenza limitata dell’inglese, con una voce dal sorprendente potere, e con un aspetto ultraterreno. Pandit Pran Nath divenne il gurūji[16], e pochi anni dopo se ne andò dall’India, lasciando una scena culturale sempre più ostile ad un interprete dalle equivoche inclinazioni religiose (era infatti un devoto dei santi Chishtī Sufi, così come un nāda[17] yogi e un mistico), ostinatamente contrario ai gusti musicali dell’epoca. Molti a New York lessero per la prima volta il suo nome nel 1970, in un articolo scritto da Young per un numero di aprile del «Village Voice». L’articolo iniziava con una frase in sanscrito ‘Nadam brahmam’, ‘Il suono è Dio. Io sono quel suono che è Dio’. Lʼarticolo presentava Pran Nath come cantante-santo, raccontando il suo background e il suo ritiro sulle montagne dove, all’età di 28 anni, ‘Pran Nath scelse di diventare un santo cantante nudo, o Naga, e per cinque anni si sedette, vestito soltanto di cenere, cantando per Dio’. Questa è l’immagine più potente che Young lasciava al lettore, quella dello yogi nudo, il cantante sufi errante, il cui assoluto controllo su intonazione e suono costituiva una sorta di scienza esoterica, un tramite con il canto degli dei vedici all’origine del tempo e del cosmo, tra la fisica vibrazionale e la neurochimica dei futuri e sconvolti freak. Tutto ciò era perfettamente in linea con i mutevoli umori della downtown.
La fredda esclusività zen e lo scetticismo razionale di Cage e Stockhausen sparirono: la Verità era stata trovata, Dio era stato individuato, il controilluminismo era iniziato con Pandit Pran Nath come guida spirituale e Young come suo sommo apostolo. Fu questo il primo assaggio dell’insolito legame tra Pran Nath e un uomo che, verso la metà degli anni ʻ60, era già stato acclamato come l’ultimo compositore americano dellʼera post-Cage. Young era il padre del minimalismo, l’enfant terrible del movimento Fluxus e uno dei suoi primi disertori; con il suo Theatre of Eternal Music aveva già virtualmente inventato lʼavant-rock, soffiando circolari linee modali di sassofono sul droning d’accompagnamento di John Cale, Tony Conrad, con il frenetico e luciferiano impulso delle hand drums di Angus Maclise. Negli anni Sessanta, quando i confini tra cinema, musica, scultura e happening erano permeabili, il loft che Young condivideva con Marian Zazeela era un nodo centrale della rete che comprendeva artisti come Walter De Maria, Robert Morris e Yoko Ono, e musicisti come Terry Riley e Henry Flynt. Si trattava di una scena artistica che sfidava lʼalto modernismo degli anni ʻ50 con un linguaggio performativo populista a metà strada tra concerto e rituale: il Theatre of Eternal Music iniziava i suoi concerti prima che il pubblico fosse arrivato, per finire dopo che tutti se ne erano andati, suonando improvvisazioni che miravano ad alterare la coscienza, in parti uguali hillbilly, dervish, e jazz. Persino John Cage sembrava improvvisamente sorpassato e in linea con lo stato dʼanimo sociale plasmato dal Civil Rights Movement e Bo Diddley, dalla guerra del Vietnam e dallʼassassinio di JFK. La Monte Young si trovava al centro di questo cambiamento quando incontrò Pandit Pran Nath.
Theatre of Eternal Music – The Over Day (1963)
Nella grande tradizione dei truffatori musicali bianchi americani, il compositore avrebbe potuto rubare lo stile del suo nuovo maestro e usarlo per andare avanti. Accadde invece qualcosa di inaspettato: La Monte Young e Marian Zazeela presero la formale iniziazione come studenti e discepoli di Pran Nath, iniziando con lui una relazione che sarebbe durata per ventisei anni, e che sarebbe terminata, o meglio sarebbe continuata su di un altro piano, soltanto con la morte del loro gurū, nel 1996. Lʼimpatto davvero radicale di questo incontro non consistette nellʼallontanamento dalle scale della tastiera del pianoforte appartenenti alla tradizione occidentale, per avvicinarsi invece ai microtoni e ai modi dellʼAsia meridionale, né nellʼutilizzo dellʼimprovvisazione: tutto questo avveniva già nellʼavanguardia americana, che respingeva la tradizione europea, la sterilità della notazione musicale e del temperamento equabile. La spaccatura più profonda fu lʼemblematica sottomissione di Young ad un insegnante, nel suo senso più pieno. Dunque un confronto con la modernità eurocentrica che andava ben oltre il modo in cui un pianoforte veniva accordato, quali droghe prendere per allargare la consapevolezza, o in quali posti esibirsi; si trattava invece del totale rifiuto di un certo modo di pensare alla personalità, al ruolo dellʼarte, e alla conoscenza stessa. Pran Nath divenne il gurū di una generazione di artisti underground americani che in questo modo trovarono una via per dimostrare a professori e galleristi lʼimportanza di sperimentare al di fuori dei limiti imposti, in ambiti dove le vecchie distinzioni non avevano più importanza. Naturalmente anche la loro arte cambiò. Jon Hassell, seduto al fianco di Pran Nath, praticò per tre anni i ragā alla tromba, sviluppando un suono cosmopolita, arricchito dallʼelettronica, senza il quale la ʻworld musicʼ successiva non ci sarebbe stata. Rhys Chatham suonò per Young e Pran Nath mentre assemblava installazioni sonore e curava la prima serie musicale tenutasi al The Kitchen. Yoshi Wada si trasformò da sbeffeggiatore di Fluxus a mega-drone shaman. Henry Flynt creò uno strano gruppo dissidente di fanatici hillbilly intrisi di rāga. Don Cherry divenne mistico. Terry Riley, Young, e Zazeela divennero una specie di gruppo errante di sadhu americani che, vestiti in abiti tradizionali indiani, eseguivano le loro composizioni e accompagnavano Pandit Pran Nath nei suoi viaggi in India e non solo, creando perplessità e sbalordimento in più di un continente.
Jon Hassell, Brian Eno, Fourth World, Vol. 1: Possible Musics (1980)
Rhys chatham, Die donnergötter (1981-1986)
Yoshi Wada, Earth Horns With Electronic Drone (1974)
Henry Flynt, Vol. 2: Spindizzy (1968-1983)
Don Cherry, Orient/Blue Lake (1971-1972)
Pandit Pran Nath + La Monte Young, Marian Zazeela and Terry Riley in the 70s rare
Anche la musica di Pran Nath cambiò, seppure in modo meno ovvio. In un certo senso qualsiasi cambiamento nel suo stile doveva essere meno ovvio: il ruolo che si era costruito sulla scena americana era, dopo tutto, portatore di una rivelazione senza tempo. Per lui il cambiamento non poteva che essere caratterizzato da una sorta di platonico indimenticabile, da un ritorno alle origini divine. Lʼinvisibilità delle sue innovazioni è dunque testimonianza del successo della sua arte; il suo nuovo pubblico ed il suo seguito gli diedero la libertà di rendere il suo stile di canto, già insolitamente lento e severo, ancor più essenziale. La sua insistenza nellʼeseguire i rāga nei momenti opportuni della giornata divenne, piuttosto che una semplice questione di tradizione (come era ed è per molti artisti indiani), metro per eventi rituali. Nei suoi concerti la stessa musica vocale indostana, eseguita nelle installazioni luminose op-art delle gallerie dʼavanguardia e nei loft di Soho, divenne una sorta di liturgia post-minimalista, unʼesperienza estetica trascendente, condivisa e visionaria, che allo stesso tempo rimaneva profondamente impressa nel corpo fisico degli ascoltatori e dello stesso artista. Era antico, insolito, e Altro. Era futuristico, appartenente alla downtown, e Nostro.
Descrivere la musica con le parole è intrinsecamente difficile, forse ancor più nel caso di una musica come quella di Pran Nath, così minimale e non familiare, così profondamente estranea ad un orecchio occidentale, ma è essenziale almeno cercare di trasmettere qualcosa della sua presenza, intensa e carismatica. Senza questo sarebbe difficile capire come questo cantante, inflessibile ed eccentrico, che aveva percorso così tante strade improbabili, divenne, nel 1979, il punto di riferimento spirituale ed il fulcro di unʼinstallazione artistica a Soho che fu, per portata, aspirazioni e finanziamenti, paragonabile al Marfa Project di Donald Judd, al Roden Crater di James Turrell, e al Lightning Field di Walter De Maria. La Monte Young e Marian Zazeela, patrocinati dalla Dia Art Foundation, crearono la Dream House, situata dal 1979 al 1985 nel vecchio Mercantile Exchange Building al numero 6 di Harrison Street, un luogo destinato a diventare il laboratorio di una scienza ultima del suono, archiviato e registrato con le migliori attrezzature possibili, con i locali del piano superiore che pulsavano delle incessanti onde sinusoidali elettroniche di Young, illuminati dallʼoptical art dei tubi al neon color magenta e dalla fantasia calligrafica della Zazeela. Quella che una volta era stata la sala delle contrattazioni divenne il luogo delle performance, che duravano cinque ore, dellʼopera magna microtonale di Young, The Well-Tuned Piano; le menti del downtown venivano a sdraiarsi o a sedersi nella posizione del loto, su uno spesso tappeto a pelo lungo, sognando il cosmic drone del Pandit Pran Nath. La Dream House fu lʼemblema dei primi tempi della Dia Art Foundation, sotto il patrocinio di Heiner Friedrich e di sua moglie Philippa de Menil, che usò la sua fortuna per finanziare gli immensi progetti, economicamente irrealizzabili, di geni solitari, realizzando le loro folli e oscure visioni, accostando mezzi minimi a dimensioni massime. Così come altri dei primi progetti della Dia, la Dream House divenne un luogo di esperienze trascendenti e visionarie; la voce di Pran Nath trovò il suo partner nella fisica aerea elementare del neo-kiva Hopi[18] del vulcanico James Turrell. Lʼidea era quella di spingere lʼascoltatore verso lʼinterno, dentro la terra stessa, dentro il corpo e il sé, per sperimentare lʼarte come metodo per elevarsi, come esperienza privata di rapimento estetico e di incarnata estasi emotiva. Nelle sue intenzioni esplicitamente metafisiche la Dream House fu forse il primo progetto paradigmatico della Dia. ʻIl suono è Dioʼ, aveva dichiarato Young, e questo era il suo tempio. Quando la prima fase della Dia iniziò ad esaurirsi, Friedrich e De Menil vennero sostituiti da un consiglio di amministrazione più orientato al business, e la Dream House fu tra i primi grandi progetti della fondazione ad essere chiuso e scorporato, lo stabile venduto, e i suoi residenti lasciati a se stessi.
Il termine del finanziamento della Dia non sorprese gli spettatori più cinici, che consideravano folle il progetto di Young e Zazeela, i loro vestiti soltanto unʼostentazione, e la loro guida spirituale e mentore poco più di un ʻinsegnante di rāgaʼ. Pran Nath si trasferì sulla West Coast, dove continuò ad insegnare e praticare nonostante il declino della sua salute. Young e Zazeela tornarono nel loro vecchio loft al 275 di Church Street, aprendo una versione in scala ridotta della Dream House che esiste ancor oggi, insieme al Kirana Center for Indian Classical Music. Tredici anni dopo la morte di Pran Nath rimangono suoi fedeli discepoli, rendendo disponibili le poche e preziose registrazioni pubblicate del loro maestro allʼapice del suo talento, tra cui Midnight: Raga Malkauns sopra menzionata, e ospitando annualmente concerti e presentazioni in sua memoria. Al centro di questa storia resta il loro tenace gurū-bhakti[19], il loro assoluto e devozionale discepolato. Questo fu, e rimane ancora, il sorprendente atto di resa che fornì a Pran Nath, un eccentrico e fino ad allora piuttosto oscuro outsider indiano, la base da cui esercitare una potente influenza sulla scena artistica underground americana, in un suo momento di sviluppo particolarmente importante.
In unʼera in cui in India ci si aspettava che i musicisti ʻclassiciʼ democratizzassero consapevolmente il loro idioma, aderendo agli standard purificatori stabiliti da un sistema rigidamente gerarchico di sponsorizzazioni statali, Pandit Pran Nath creò un modello cosmopolita alternativo per il futuro della musica tradizionale dellʼAsia Meridionale, attento alle tecnologie audio più avanzate, alla sensibilità spirituale, e ad una cerchia di intenditori dʼélite, neo-nawab[20] e principesse underground di una strana corte, in un nuovo mondo. Fu un insolito innovatore nomade, il godfather of drone; è stato cancellato dalla storia contemporanea dellʼarte e della musica indiana, prima da storici e critici nazionalisti che non sapevano dove collocarlo, e oggi dalla scena commerciale contemporanea che conosce a malapena il suo nome. Ma il mondo artistico dellʼAsia meridionale sta cambiando rapidamente in questi giorni, sempre più concentrato sui nuovi media e sullʼarte elettronica, sulle imprevedibili collisioni tra flussi culturali nazionali e globali, e sulla rielaborazione dellʼidentità. Forse è il momento giusto per esaminare di nuovo gli archivi, cercando più in profondità, nei Pran Nath che vi si nascondono, i tratti perduti o nascosti dellʼavanguardia e dellʼ “Al di fuori”. Pran Nath significa in sanscrito ʻSignore del soffio vitaleʼ: quello che già è stato il destino di questo maestro, rimane ancora una promessa per il futuro.
In Between The Notes: A Portrait of Pandit Pran Nath
[1] Drone, termine inglese che potremmo tradurre con ʻbordoneʼ. In questa traduzione abbiamo volutamente mantenuto alcuni termini in lingua originale per non rischiare di perderne le diverse sfumature di significato.
[2] Alexander Keefe, Lord of the Drone. Pandit Pran Nath and the American underground, «Bazaar. Of boom and bust» 20, Spring 2010. https://www.bidoun.org/articles/lord-of-the-drone, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[3] ʻIl tambura, tampura, tanpura, o tambora è uno strumento musicale della tradizionale indiana. La sua forma assomiglia a quella di un liuto dal collo allungato ed è uno strumento a corde. La forma del corpo del tambura è simile a quella del sitar, ma senza tasti – solo le corde aperte vengono suonate per accompagnare altri musicisti. Ha quattro o cinque (raramente sei) corde metalliche, che vengono pizzicate una dopo l’altra in modo regolare per creare una risonanza armonica sulla nota fondamentale (chiamata bordone o drone)ʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Tambura, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[4] ʻShiva è presenza attiva nella vita del devoto e dell’aspirante. Nella mitologia generale, Shiva come aspetto della trimurti è noto come aspetto positivo per l’episodio che lo fa raffigurare con la gola blu e che ha portato all’epiteto di Nilakantha che significa proprio “gola blu”. Il colore bluastro viene attribuito anche ad una delle più adorate incarnazioni divine (avatara) di Vishnu: Krishna. In alcune immagini l’intero corpo di Shiva viene raffigurato di colore bluastro. Alcuni studiosi associano la colorazione al fatto che i culti di Shiva e anche Krishna fossero comunque prevedici e dravidici, e pertanto fossero raffigurati con il colore scuro della pelle. E’ lo stesso principio per cui il palestinese Gesù Cristo è stato rappresentato per secoli con la carnagione chiara, gli occhi chiari e i capelli castani se non biondi. La gola di Shiva divenne blu in occasione della sconfitta dei Deva da parte degli Asura. Normalmente col termine Deva si intendono gli Dei, mentre col termine Asura vengono indicati i demoni. In realtà inizialmente gli Asura erano anch’essi degli Dei, ma appartenenti al periodo prevedico e durante il Bramanesimo furono trasformati in entità negative dal clero. Lo stesso termine “demone” aveva durante il periodo classico ellenico in Occidente era tutto fuorché un ente negativo. Fu trasformato a simbolo del male dal cristianesimo per cercare di debellare ogni preesistente culto, nell’opera di attento sterminio delle Divinità delle popolazioni conquistate al sorgente culto semitico. Alcuni sostengono che lo stesso Shiva in realtà all’inizio appartenesse agli Asura, e dato che la sua enorme diffusione ne rendeva impossibile la eradicazione, fu portato al rango di divinità principale. Dopo la sconfitta degli Dei, questi si rivolsero al Divinità creatrice, Brahma affinché fosse ristabilita la pace, questi li indirizzò da Vishnu, l’aspetto conservativo, che stabilì la pace e propose di aiutarli a conquistare l’amrita, la bevanda dell’immortalità. Per recuperare la coppa contenente l’amrita, si decise di battere il mare di latte primordiale con una zangola. Come bastone della zangola fu usato il monte Mandara e in luogo della corda il serpente Vasuki fu avvolto attorno al monte Mandara. Vishnu prese la forma di una tartaruga gigantesca per portare il monte in fondo al mare di latte. Gli Dei e gli Asura presero il serpente per la testa e per la coda e iniziarono a tirare. Il monte Mandara iniziò a zangolare il mare di latte, quando all’improvviso Vasuki, tirato da una parte e dall’altra, vomitò un fiotto di veleno, così abbondante da sembrare un torrente e rischiando di sterminare tutti gli Dei. Il getto colpì la mano di Shiva che lo raccolse e lo ingoiò tutto, rimanendo sulla sua gola un segno bluastro. In quell’occasione dal mare uscirono Airavata, l’elefante bianco cavalcatura di Indra; il rubino Kaustubha che orna il petto di Visnu; la vacca Kamadhenu, simbolo dell’abbondanza; la bellissima Lakshmi circondata dalle Apsara, le divine cortigiane; Dhavantari, il dio dalla pelle scura che portava la coppa contenente l’amritaʼ. Massimo Burgio, Lord Shiva. Simbolismo E Mitologia Del Signore Dell’Universo, https://www.bholebabaji.it/wp-content/uploads/2017/11/Lord-Shiva-simbolismo-mitologia.pdf, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[5] ʻUna leggenda narra che Parvati, prima di andare in sposa a Shiva, rimase per anni presso di lui, in continua meditazione, per conquistarlo. Shiva, però, soffriva per la morte della sua compagna Sati e, per questo motivo, non degnava Parvati neanche di uno sguardo. Il dio dell’amore, Madana, accortosi dell’accaduto e ritenendo Parvati una degna sposa per il dio, le suggerì di danzare per lui. La danza di Parvati fu così leggiadra ed armoniosa che Shiva si scosse dal torpore causato dal dolore della perdita della sposa, fu affascinato dalla grazia di Parvati e se ne innamorò, decidendo di sposarlaʼ. Ibidem. ʻConsiderata benevola, è quasi sempre ritratta assieme al suo consorte, di cui rappresenta il perfetto completamento, ed agisce sempre in quanto sposa di quest’ultimo. Possiede forme terrificanti come Durgā e Kālīʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Parvati, ultimo accesso 17 febbraio 2021. Probabilmente il testo originale si riferisce agli aspetti terribili della dea con il termine bloody, sanguinoso.
[6] ʻIl Sarod è uno strumento cordofono pizzicato usato originariamente nella musica indiana. Insieme al sitar è lo strumento predominante nella musica tradizionale dell Hindustan (nord dell’India, Pakistan, Bangladesh)ʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Sarod, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[7] ʻIl tablā è uno strumento a percussione originario del subcontinente indiano (India, Pakistan e Bangladesh) costituito da una coppia di piccoli tamburi, uno solitamente di legno e l’altro di metallo o argilla, sui quali è tesa mediante legacci di cuoio la membrana in pelle, la cui tensione si può modificare per mezzo di cilindretti o tasselli di legno collocati tra il fusto e i legacci. La membrana di pelle è dotata al centro di un cerchio di pasta nera (syahi), grazie al quale è possibile influenzarne l’intonazione e generare toni caratteristici. Il tabla è utilizzato nella musica indiana, sia classica che popolare e religiosa ma anche nella musica occidentale moderna di colorazione etnica (p.e. nella cosiddetta world music). L’origine indiana dello strumento, sviluppato a partire dalle epoche dei Veda e Upanishad, è testimoniata da varie sculture presenti in molti templi indiani, come nelle grotte di Bhaja nello stato del Maharashtra risalenti al 200 a.C., o su un intaglio del XII secolo nei templi di Hoysala in Karnataka, dove viene mostrata una donna che suona il tabla durante una danzaʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Tabla, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[8] ʻIl termine Raga o Rāga indica, nella musica classica indiana, particolari strutture musicali, che seguono nell’esecuzione precise regole relativamente alle frasi melodiche consentite o vietate, e sono basati su un certo numero di scale musicali di base. Per ogni scala di base esistono innumerevoli Rāga teoricamente possibili, anche se nella pratica effettiva dei musicisti ammontano complessivamente a qualche centinaio. Una particolarità rispetto alla prassi esecutiva occidentale è che molti Rāga prevedono l’utilizzo di due scale differenti, a seconda che la frase musicale sia ascendente o discendente. In India esistono due sistemi di musica classica, quello indostano del Nord e quello carnatico del Sud, che si differenziano in molti aspetti pur mantenendo una base fondamentale comune. Le scale di base del sistema indostano sono 10, sei delle quali conosciute anche in Occidente, scelte per le loro particolari caratteristiche strutturali. Queste formano un punto di riferimento per un gran numero di altre scale. Il sistema carnatico invece contempla 72 scale teoriche possibili, di cui 32 effettivamente utilizzabili, basate sulle combinazioni delle note. Le scale dei due sistemi sono usate intercambiabilmente, anche se con nomi e classificazione diversi. Ogni brano classico dell’India, è basato su un certo Rāga: l’accompagnamento del canto o l’esecuzione solista viene eseguita improvvisando sulle note della scala del raga, in accordo alle regole caratteristiche del raga stesso. Le 7 note indiane che compongono la scala diatonica sono chiamate Sa, Re, Ga, Ma, Pa, Dha, Niʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Raga, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[9] ʻCol vocabolo sanscrito sādhus (sādhus: «un uomo buono o onesto, un santo, saggio; un Jina o un santo Giaina deificato» ma anche «un mercante; un presta-soldi, usuraio», per alcuni esso è un sostantivo derivato o flesso; mentre sādhu,: «perfetto, […] buono, virtuoso, onorabile, […] puro, […] appropriato, […] piacevole, […] nobile, di discendenza onorabile e rispettabile») viene categorizzata una tipologia di asceti induisti, che dedicano la propria vita all’abbandono, alla rinuncia della società. Gli induisti considerano che l’obiettivo della vita sia la moksha, la liberazione dall’illusione (Māyā), la fine del ciclo delle reincarnazioni e la dissoluzione nel divino, la fusione con la coscienza cosmica. Tale obiettivo è raggiunto raramente nel corso della vita presente. Il sādhu sceglie, per accelerare questo processo e realizzarlo in questa vita, di vivere una vita di santitàʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Sadhu, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[10] ‘Il sitar è uno strumento musicale a corde dell’India settentrionale; è lo strumento della musica classica indiana più conosciuto in Occidente. Il termine sitar deriva probabilmente dal termine persiano seh-tar, che letteralmente significa tre corde ed in effetti esiste uno strumento iraniano chiamato setar che presenta caratteristiche simili; entrambi derivano da una evoluzione della citara a sua volta derivante dalla lira, termine di origine persiana: al’ūd (legno) e tar (corda)’. https://it.wikipedia.org/wiki/Sitar, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[11] ʻGurukul o gurukula è in India un tipo di scuola, tradizionalmente immersa nella natura, dove gli alunni, shishya, vivono in prossimità del loro guru, e spesso nella sua stessa casa. Prima del dominio britannico nell’Asia meridionale servivano da istituzioni educative primarie. La tradizione guru-shishya paramparā è considerata sacra nell’induismo e compare anche in altri gruppi religiosi in India, come giainismo, buddismo e sikhismo. Il termine gurukul è una contrazione del sanscrito guru, insegnante o maestro, e kula, famiglia allargata. In un gurukul gli shishya vivono insieme, da uguali, a prescindere dalla loro condizione sociale, imparando dal guru e aiutandolo nella vita quotidiana, anche attraverso lavori domestici quali lavare i vestiti, cucinare, ecc. Tradizionalmente il guru non riceve infatti alcun compenso dallo shishya che studia con lui. Alla fine dei suoi studi lo shishya offre al guru la dakshina prima di lasciare il gurukul. Il gurudakshina è un gesto tradizionale di riconoscimento, di rispetto e di ringraziamento, che può essere monetario ma anche la realizzazione di un compito speciale voluto dal maestro. Vivendo nel gurukul gli studenti devono stare completamente separati dalla loro casa e famigliaʼ. Tradotto da https://en.wikipedia.org/wiki/Gurukula, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[12] Ustād, parola persiana, è un titolo onorifico di solito usato per maestri e artisti famosi, spesso musicisti. Viene applicato e utilizzato tramite accordo sociale informale. Tradotto da https://en.wikipedia.org/wiki/Ustad, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[13] ʻNella musica indostana il termine gharānā indica un sistema di organizzazione sociale che raggruppa musicisti o danzatori provenienti dallo stesso lignaggio di apprendistato e che comporta l’adesione ad un particolare stile musicale. Gharānā indica anche una precisa ideologia musicale che può essere sostanzialmente diversa tra diversi gharānā e che riguarda il pensiero, l’insegnamento, la presentazione e il giudizio sulla musica. Il termine deriva dalla parola hindi ghar, che significa famiglia o casa. Si riferisce in genere al luogo in cui ha origine (per esempio alcuni dei gharānā più noti del canto khyāl sono Agra Gharānā, Gwalior Gharānā, Indore Gharānā, Jaipur Gharānā, Kirana Gharānā e Patiala Gharānā)ʼ. Tradotto da https://en.wikipedia.org/wiki/Gharana, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[14] ‘L’ālāp è, nella musica classica indostana, la prima parte dell’esposizione di un rāga. Si tratta di una forma di improvvisazione melodica che introduce e sviluppa il rāga. L’ālāp, che inizia con frasi molto lente, è privo di una pulsazione ritmica esplicita, improvvisato e senza accompagnamento, fatta eccezione per il tanpura. L’improvvisazione segue precise regole e molti musicisti eseguono l’ālāp per mezzo di vistar (letteralmente estensione, elaborazione), introducendo in frasi successive, una alla volta, le note del rāga, creando così un atmosfera nella quale l’arrivo all’ottava superiore viene enfatizzato. Nella musica strumentale, quando nell’ālāp si introduce una pulsazione ritmica costante, abbiamo il jor (il nomtom del canto dhrupad), e quando il ritmo viene notevolmente aumentato o quando la componente ritmica eguaglia quella melodica, il jhālā. Jor e jhālā possono essere visti come sezioni distinte della performance o come parti successive dell’ālāp; così anche il jhālā può essere visto come una parte del jor. Diversi studiosi hanno proposto classificazioni e descrizioni complesse di ālāp e, come nelle composizioni tradizionali formate da quattro parti, asthai, antara, sanchari e abhog, hanno individuato in alcuni ālāp la stessa struttura. Il ricercatore bengali Bimalakanto Raychoudhuri, nel suo Bharatiya Sangeetkosh, suggerisce una classificazione sia per lunghezza che per stile esecutivo (secondo i quattro antichi vanis, o stili di canto, Gohar, Nauhar, Dagar e Khandar), suddividendo l’ālāp in ben tredici parti diverse: vilaṃbit, madhya, drut, jhālā, thok, lari, larguthav, larlapet, paran, sat, dhuya, matha, paramatha. Sempre secondo Raychoudhuri l’ultima parte, il Paramatha oggi non si usa più, mentre il passaggio dall’asthai all’abhog avviene già all’interno della prima parte, il vilaṃbit. Le parti dalla sesta in poi vengono usate solo nella musica strumentale. Altri studiosi hanno fornito classificazioni differenti’. Tradotto da https://en.wikipedia.org/wiki/Alap, ultimo accesso 16 febbraio 2021.
[15] Con il termine hindi drut, o drut laya, si indica un tempo musicale veloce, tra i 160 e i 320 bpm, usato nella parte conclusiva della presentazione di un rāga. Tradotto da https://en.wikipedia.org/wiki/Drut, ultimo accesso 16 febbrai 2021.
[16] ʻGurū è un termine maschile sanscrito che presso la religione induista ha il significato di «maestro spirituale» ed è rivolto in particolar modo a colui che impartisce la dīkṣā al suo discepolo; si tratta dunque di una figura molto importante in questa religione, comune a tutte le scuole filosofiche e devozionali dell’Induismo, avente diritto al massimo rispetto e alla venerazione al pari del padre, della madre e dell’ospiteʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Guru, ultimo accesso 16 febbraio 2021. Il suffisso onorifico neutro ji, è usato comunemente in molte lingue dellʼAsia.
[17] ʽNada,in sanscrito, significa vibrazione, cioè suono: il Nada Yoga è una disciplina musicoterapeutica di origine indiana e tibetana che utilizza il suono, la musica e la coscienza (consapevolezza fisica), per ristabilire equilibrio e armonia tra corpo, mente e spirito, risolvendo o alleviando molti problemi psicologici, fisici e fisiologici in modo naturale. I fondamenti teorici del Nada Yoga si trovano in antichissimi trattati (Gandharva Veda, Upanishad, Naradiya Shiksha, Sangita Ratnakara ecc.), in cui è stata formulata una teoria generale del suono su basi matematiche, fisiche e metafisiche. Un grande sviluppo a questa antichissima disciplina è stato dato dagli studi e dalle ricerche del musicista e musicoterapeuta indiano, Sri Vemu Mukunda di Bangalore. Il principio fondamentale del Nada Yoga è quello della Tonica, la frequenza-base diversa per ciascuna persona, su cui vengono impostate tutte le tecniche, che prevedono l’uso della voce e del canto elementare: il risultato più immediato consiste nel raggiungere la mente rendendola calma e libera da emozioni e inibizioni intellettuali (mente incondizionata). L’uso poi di appropriati Mantra (vibrazioni sonore che attuano il corretto e funzionale movimento del prana con conseguente ridistribuzione di energia) e di specifiche scale musicali ricavate dallo schema Melakarta del Sud India (impostate ed eseguite sulla nota tonica individuale), consente di toccare particolari punti del corpo fisico e psico-eterico (nadi) e della sfera emotiva (shrutis), rimuovendo dal subconscio i blocchi energetici negativi convertendoli in positività per fini autoterapeutici e per favorire e sviluppare la creatività. L’individuazione e l’uso di del Ritmo Naturale, anch’esso diverso per ogni individuo, permette di adeguare ogni attività ad un dato ritmo di riposo, a tutto vantaggio della resistenza fisica e della lucidità mentale. Particolari tecniche ritmofonetiche Takadimi inducono una attivazione neurosensoriale che incrementa le sinapsi cerebrali, migliorando l’attenzione, la concentrazione, la memoria e l’intelligenza. Le tecniche strettamente musicoterapeutiche sono inoltre affiancate da una serie di esercizi che consentono il progressivo sviluppo della forza mentale per l’attivazione e la distribuzione di energia ionica per l’allineamento e il rafforzamento dei campi elettromagnetici del corpo umano: ciò favorisce la circolazione sanguigna, agisce sulla struttura ossea e muscolare, rallenta il processo di invecchiamento delle cellule e assicura una valida protezione fisica e mentale. L’addestramento ad esercizi di Meditazione, attraverso la pratica del Canto Armonico (Overtones), permette infine di ottenere il particolare stadio di riposo della mente (niroda) equivalente a quello raggiungibile solo ad un particolare livello del sonno (onde cerebrali delta)ʼ. Riccardo Misto, http://www.nadayoga.it/index.php?name=News&file=article&sid=4, ultimo accesso 17 febbraio 2021.
[18] ʻIl termine Kiva deriva dalla lingua hopi e sta ad indicare dei locali utilizzati dai Pueblo per le loro funzioni religiose o assemblee. Questi locali sono tipicamente a pianta circolare, sotterranei o semi-sotterranei e vi si accede con una apertura sul tetto e delle scale a pioli. La forma circolare, in contrasto con le forme quadrate o rettangolari tipiche dell’architettura delle abitazioni pueblo, sta probabilmente ad indicare la sacralità del luogo, oppure può essere messa in relazione con le pit-house, le case semiinterrate a forma circolare dei Popoli ancestrali (Anasazi) da cui si suppone discendano i Pueblo. Nel pavimento del Kiva veniva realizzato un piccolo foro (detto sípapu in lingua Hopi) che stava ad indicare il luogo simbolico di origine della tribù. Le pareti interne erano rivestite in adobe ad in alcuni casi intonacate. Sebbene lo scopo più importante dei Kiva fosse quello di ospitare i riti religiosi, talvolta poteva essere utilizzato anche per le riunioni politiche e gli incontri informali degli uomini del villaggio. Le donne solitamente non accedevano ai Kiva e celebravano i loro rituali in altre sedi. Sulle pareti interne dei Kiva potevano essere dipinte immagini che raffiguravano figure sacre o scene di vita quotidiana della tribù. Lo stile di queste pitture tende ad essere geometrico, con maggiore utilizzo di linee rette piuttosto che le linee curve e con l’intera opera disposta in uno schema lineare, tutto intorno alle mura. Le pitture murali sono dipinti sull’intonaco con colori caldi i cui pigmenti venivano ricavati dai ricchi giacimenti minerari della zona. In alcuni casi sono stati ritrovati più livelli di dipinti con strati di intonaco sovrapporti. Nel secolo scorso una serie di murales Kiva sono stati portati alla luce e restaurati. Fra questi quelli di Kuaua pueblo presso il Coronado State Monument, quelli di Awatovi conservati al Peabody Museum of Archaeology and Ethnology della Università Harvard e quelli dei 17 Kiva di Pottery Moundʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Kiva, ultimo accesso 17 febbraio 2021.
[19] ʽBhakti è un termine sanscrito che nelle tradizioni religiose dell’India indica l’aspetto devozionale della fede in una divinità personale o anche un maestro spirituale, caratterizzato spesso da una partecipazione emotiva intensa e totalizzante. “La via della bhakti” (bhaktimarga o anche Bhakti Yoga) è, in molte di queste tradizioni, uno dei mezzi per ottenere la liberazione (mokṣa)ʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Bhakti, ultimo accesso 17 febbraio 2021.
[20] ʻUn nababbo o nawāb era in origine un Ṣūbēdār (governatore provinciale) o un viceré di una subah (provincia) o regione dell’Impero Mughal. Divenne poi un’alta titolatura attribuita a nobili musulmaniʼ. https://it.wikipedia.org/wiki/Nababbo, ultimo accesso 17 febbraio 2021.